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La trattativa e il documento smarrito sul 41 bis

Scritto da Salvo Palazzolo il 15 novembre 2010 |  
Pubblicato nella categoria Senza categoria

Sette mesi dopo la strage Borsellino, alcuni vertici delle istituzioni avevano fretta di revocare il carcere duro ai mafiosi. La questione fu affrontata addirittura durante un comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza. Fino ad oggi, mai nessuno l’ha ammesso. Anzi, tutti i politici interrogati dai magistrati e della commissione antimafia continuano a ribadire che in quei mesi ci fu solo la linea della fermezza contro i boss.

Adesso, un documento li smentisce. È un “appunto” del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria: “numero 115077 del 6 marzo 1993”, indirizzato al capo di gabinetto del ministro della Giustizia Giovanni Conso. La firma è dell’allora direttore Nicolò Amato. A leggere l’oggetto, in quei 75 fogli c’è solo routine: “Organizzazione e rapporti di lavoro”. E invece, a pagina 59, Amato apre un capitolo cruciale: “Revisione dei decreti ministeriali emanati a partire dal luglio ‘92, sulla base dell’articolo 41 bis”. È il cuore del documento, rimasto per 17 anni negli archivi del ministero della Giustizia.

Sabato, ho scritto sul mio giornale, un articolo che mostra per la prima volta quel documento.

Ecco il

È un documento destinato a riscrivere la storia di quei mesi ancora oscuri. In quella nota c’è un’indicazione precisa al Guardasigilli: “Appare giusto ed opportuno rinunciare ora all’uso di questi decreti”. Due sono le strade suggerite: “Lasciarli in vigore fino alla scadenza senza rinnovarli, ovvero revocarli subito in blocco. Mi permetterei di esprimere una preferenza per la seconda soluzione”. Amato spiega perché: “L’emanazione dei 41 bis era giustificata dalla necessità di dare alla criminalità mafiosa una risposta. Ma non vi è dubbio che la legge configura il ricorso a questi decreti come uno strumento eccezionale e temporaneo”.

Dietro queste parole non c’è solo un’iniziativa del Dap. È Amato a scriverlo. “In sede di Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza, nella seduta del 12 febbraio, sono state espresse, particolarmente da parte del capo della polizia, riserve sulla eccessiva durezza di siffatto regime penitenziario. Ed anche recentemente — prosegue il direttore — da parte del ministero dell’Interno sono venute pressanti insistenze per la revoca dei decreti applicati agli istituti di Poggioreale e di Secondigliano”.

Perché il capo della polizia Vincenzo Parisi e il Viminale allora retto da Nicola Mancino esprimevano quelle “riserve”? Pochi giorni fa, alla commissione parlamentare antimafia, Conso ha svelato che nel novembre ‘93 fu tolto il carcere duro a 140 mafiosi. Amato non era più al Dap da giugno. “Fu una mia scelta, non ci fu alcuna trattativa”, ha ribadito Conso. Ma non ha convinto.
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Il cavaliere Utveggio e i misteri di Palermo

Scritto da Salvo Palazzolo il 2 ottobre 2010 |  
Pubblicato nella categoria Senza categoria

Un altro mistero siciliano si aggira attorno al nome del cavaliere Michele Utveggio. Ma non è il castello di Montepellegrino dove si sarebbero nascosti gli assassini ancora senza nome di Paolo Borsellino. Utveggio è anche una strada dell´estrema periferia di Palermo, Brancaccio, dove il boss Filippo Graviano, uno dei mandanti dell´assassinio di don Pino Puglisi, organizzava i suoi summit riservati. In via Utveggio 7, in un capannone che all´inizio degli anni Novanta era una fabbrica di cucine componibili, Filippo Graviano avrebbe incontrato l´allora avvocato Renato Schifani.

Non ha dubbi il pentito Gaspare Spatuzza. L´aveva detto ai magistrati di Firenze: “Ricordo di avere visto diverse volte la persona che poi mi è stata indicata essere l´avvocato di Pippo Cosenza, il titolare della ditta di cucine. Preciso che in queste circostanze la persona contattava sia Cosenza che Filippo Graviano, in incontri congiunti. La cosa mi fu confermata da Filippo Graviano nel carcere di Tolmezzo: Graviano mi diceva che l´avvocato di Cosenza era in effetti l´attuale presidente del Senato”.

Dieci giorni fa, Spatuzza ha ribadito il suo racconto ai magistrati della Procura di Palermo, che l´hanno interrogato per tre ore. E adesso, scrive il settimanale L´espresso, Renato Schifani è indagato per concorso esterno in associazione mafiosa. Un atto dovuto, per cercare riscontri al racconto di Spatuzza. Anche se il procuratore di Palermo, Francesco Messineo, smentisce ufficialmente: “Il nominativo di Renato Schifani non è iscritto nel registro notizie di reato di questa Procura”. La direzione de L´espresso conferma l´indagine, “iscritta quest´anno nel registro generale notizie di reato”, è detto in un comunicato.

Di certo, le prime dichiarazioni di Spatuzza sull´avvocato Schifani sono ormai pubbliche. Si trovano dentro un rapporto della Dia di Firenze, del 26 ottobre 2009, che è finito agli atti del processo Dell´Utri. Probabilmente per una svista, perché l´intestazione del rapporto riguarda genericamente “accertamenti in merito alle dichiarazioni rese da Spatuzza Gaspare”. A pagina 12, ci sono le prime verifiche avviate dai pm di Firenze sulla questione Cosenza-Schifani. “Anch´io – dice il pentito – avendo in seguito visto Schifani sui giornali e in televisione, l´ho riconosciuto per la persona che all´epoca vedevo agli incontri di cui ho parlato”.

Alcuni mesi fa, queste dichiarazioni sono state trasmesse alla Procura di Palermo, che ha così avviato l´inchiesta. L´allora cliente di Schifani, Giuseppe Cosenza, è un personaggio già noto ai magistrati che si sono occupati del clan di Brancaccio. Due pentiti, Giovanni Drago e Tullio Cannella, l´accusano di essere stato “a disposizione” dei Graviano. Anche al punto da consegnargli le chiavi del capannone di via Utveggio: un sabato mattina del marzo 1989, fra le cucine componibili di Cosenza, i boss avrebbero strangolato un giovane ladro che rubava senza autorizzazione. Nel 1995, Cosenza era finito in manette, ma riuscì poi a dimostrare che anche altri operai avevano le chiavi del deposito. Fu dunque prosciolto, anche se poi gli venne imposta la sorveglianza speciale per tre anni.

Schifani torna a bollare come “infami e false” le accuse di Spatuzza: “Sono un cittadino e un politico onesto che ha sempre combattuto la mafia”, dice.

Povero cavaliere Michele Utveggio. Il castello di Montepellegrino che porta il suo nome è ormai il simbolo dei misteri della strage Borsellino. Adesso, il pentito Spatuzza ci dice che in via Utveggio, a Brancaccio, si consumavano altri misteri. E dire che Michele Utveggio fu persona solare e di grande ingegno.

Da une veloce ricerca sul Web leggo che nacque a Calatafimi nel 1866 e morì nel 1933, a Palermo, dove fu costruttore e imprenditore illuminato. Nel 1915 aprì la prima sala cinematografica della città, a Piazza Verdi, (l’attuale Rouge et Noir), che funzionò anche come teatro di varietà. Utveggio fu consigliere comunale e presidente della squadra di calcio del Palermo. Nel 1928, iniziò i lavori su Montepellegrino di quello che doveva essere un grande albergo. Michele Utveggio morì prima.

Il castello è ormai noto. Ecco, dal satellite, la via Michele Utveggio e il capannone del giallo:

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