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Falcone, la relazione ritrovata

Scritto da Salvo Palazzolo il 2 febbraio 2010 |  
Pubblicato nella categoria Senza categoria

“Da tempo, purtroppo, assistiamo quasi senza accorgercene alla progressiva dispersione della cultura della giurisdizione ed alla continua erosione dei valori dell’indipendenza ed autonomia della Magistratura; e ciò in conseguenza di una serie di reazioni a catena, che, partendo da una certa insofferenza per il magistero penale e dalla forte tentazione dei partiti di occupare anche l’area riservata al potere giudiziario, rischia di scardinare l’assetto costituzionale della divisione dei poteri e di svuotare di contenuto la giurisdizione”. Non è un brano tratto dall’ultimo documento dell’associazione nazionale magistrati, che alla recente inaugurazione dell’anno giudiziario ha scelto di entrare in polemica con il ministro della Giustizia. Sono parole di Giovanni Falcone, pronunciate a Catania il 12 maggio 1990, ad un convegno organizzato dalla facoltà di Economia e Commercio.

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La relazione di Falcone


“Chi mi conosce sa perfettamente che condivido le critiche nei confronti di certi arroccamenti corporativi – Giovanni Falcone ha il tono schietto di sempre – Chi mi conosce sa perfettamente che condivido le critiche nei confronti di certi richiami formalistici ad un tecnicismo giuridico incurante delle esigenze della società, di certi collateralismi tra taluni Magistrati e determinati gruppi del potere politico. Tuttavia, tali censurabili atteggiamenti culturali non rappresentano di certo una buona ragione per tentare, profittando della crescente sfiducia dei cittadini nei riguardi della Giustizia, per portare avanti un progetto di delegittimazione della magistratura e di progressivo affievolimento delle garanzie di legalità complessive del sistema, dettate non certamente a beneficio della corporazione dei giudici ma nell’interesse di tutta la collettività. Il meccanismo di attacchi e di sospetti – precisa Falcone – si è innescato anche a soprattutto nei confronti dei c.d. giudici antimafia”.

Il testo di questa relazione, dal titolo “Ruolo della magistratura nella lotta alla mafia”, è stato recuperato da Giovanni Paparcuri, uno dei collaboratori di Falcone al palazzo di giustizia di Palermo. Paparcuri è andato in pensione il 31 dicembre scorso: sistemando il suo ufficio ha ritrovato quel prezioso documento, che adesso tutti possono leggere.

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Manca solo un foglio (pagina 18), ma il pensiero di Giovanni Falcone è comunque chiarissimo: “Come non ricordare che è stata bollata come “supplenza” da parte della Magistratura un’attività antimafia che, in quanto diretta all’accertamento di reati, era solo legittima ma anche doverosa? E come non ricordare che alcuni hanno avuto il coraggio di accostare un’attività repressiva svolta nel pieno rispetto delle leggi a quella del prefetto Mori nel periodo fascista?”

“Tante altre critiche sono piovute addosso ai magistrati che si occupavano di inchieste di mafia – dice Giovanni Falcone – Basterebbe ricordare le disinvolte generalizzazioni su pretese scorrettezze nella gestione dei c.d. “pentiti”; quella sui c.d. professionisti dell’antimafia; quelle sulle creazioni dei maxi-processi, come se fossero una invenzione dei magistrati piuttosto che la conseguenza, se si vuole perversa, della normativa sulla connessione dei procedimenti e di una realtà criminosa di dimensioni inusitate; quelle sull’uso delle scorte, che hanno indotto taluni illustri opinionisti anziché a stigmatizzare gli eccessi nell’assegnazione della protezione a chi non correva rischi reali, a guardare con insofferenza tutta la categoria dei magistrati e, specialmente, quelli maggiormente esposti a rischio”.

La conclusione di Giovanni Falcone, che sembra scritta oggi: “Di fatto questo clima tangibile di ostilità ha contribuito, mi auguro inconsapevolmente, a delegittimare la Magistratura ed a creare confusione e disorientamento in quella stessa opinione pubblica che con tanto slancio aveva sostenuto l’impegno antimafia”.
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Così si moriva a Palermo. E per 30 anni non si è saputo perchè

Scritto da Salvo Palazzolo il 27 gennaio 2010 |  
Pubblicato nella categoria Il blog inchiesta

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Due furono strangolati e tre fucilati, il 4 agosto 1973, solo perché avevano fatto troppo chiasso al ristorante e risposto male a uno dei padrini più riveriti di Cosa nostra, che si intratteneva a pranzo con uno stimato avvocato. Oggi quel padrino è un collaboratore di giustizia, si chiama Gaetano Grado: a stento, davanti ai magistrati della Procura di Palermo, ha ricordato i nomi di quei ragazzi poco più che ventenni. “Penso di averli appresi qualche giorno dopo dal giornale”, dice. Ma ricorda benissimo l’affronto subito: “Prima un cameriere, poi il padrone del ristorante cercarono di rimettere ordine, i ragazzi avevano iniziato ad alzare la voce e a litigare. Uno di loro, penso si chiamasse Paolo Morana, all’improvviso si sbottonò la giacca e rivolgendosi apparentemente al suo amico Alfredo Dispensa pronunciò parole offensive nei miei confronti, mostrando due pistole che portava alla cintola”. Grado non si scompose. Finì il pranzo. E poi commissionò il delitto.

È una Palermo che sembra senza speranza quella che scorre nelle centinaia di pagine riempite da Grado. Il racconto degli undici delitti che l’ex boss di Santa Maria di Gesù confessa è essenziale, asciutto. Il padrino di un tempo non si scompone mai. Il pubblico ministero gli chiede: “Vuole una sigaretta?”. Grado risponde: “No, guardi, quelle non le fumo, non si offenda. Fumo queste”. E ritorna a elencare i suoi morti.

Il 4 agosto 1973 anche Tommaso Santoro, Francesco Paolo Morana e Giuseppe D´Amore. Il 7 gennaio 1982 Michele Graviano, il padre di Filippo e Giuseppe Graviano, i boss di Brancaccio: fu l´inizio della stagione della vendetta contro Riina e Provenzano, diventati i nuovi padroni di Cosa nostra.
“Sei mesi dopo la morte di Stefano Bontade venne ucciso mio fratello – racconta Grado, che è assistito dall’avvocato Monica Genovese – a quel punto decisi di andare in Spagna, a Benidorm. Di tanto in tanto scendevo a Palermo, uccidevo i capi delle famiglie mafiose alleate con i Corleonesi e tornavo in Spagna”.

Il rosario degli omicidi di Grado prosegue con la data del 12 novembre 1983. Tocca a Salvatore Zarcone: “Volevo convincerlo a passare dalla nostra parte, ma sospettavo che “Sassolino”, così lo chiamavamo, facesse il doppio gioco e che di fatto fosse passato con i Corleonesi”.
Poi, il 12 luglio 1988, a Bagheria, cade Pietro Messicati Vitale. Il 29 marzo 1989, a Casteldaccia, Francesco Baiamonte. Il 14 aprile, ancora a Casteldaccia, Antonino Aspetti. Il 9 maggio, a Palermo, Domenico Russo. Il pentito scorre anche i nomi dei complici: Agostino D’Agati, Gabriele Giglio e Giuseppe Di Peri, nel 1989. Il pentito ribadisce che nel commando non ci fu mai il cugino Salvatore Contorno, già all´epoca pentito, che venne arrestato il 26 maggio di quell´anno proprio con Grado, in una villetta di San Nicola l’Arena.

Il collaboratore fa anche i nomi dei complici negli altri delitti: Rosario D’Agostino, Franco Mafara, Salvatore Micalizzi, Antonino La Rosa, Rosario Riccobono e Stefano Giaconia. Ma sono tutti morti. Alcuni uccisi a loro volta. Solo uno è sopravvissuto, Salvatore Riina. E anche per lui il sostituto procuratore Ambrogio Cartosio ha chiuso l’indagine, chiamandolo in causa per la strage del 4 agosto 1973. “Uscito dal ristorante, alle due – ricostruisce Grado – andai a trovare Riina, in una cava a San Ciro Maredolce. Alfredo Dispensa, accompagnato da Antonino Tarantino, era corso a scusarsi. Gli offrimmo da bere. Si scusò ancora, ammise pure di avere ammazzato assieme ai suoi compagni Gino Castellese, che era parente dei boss Di Carlo, di Altofonte. Dispensa fu legato e strangolato”.

Poi fu il momento degli altri tre: “Stavano sempre in una pescheria di via Gustavo Roccella – così prosegue il racconto di Grado – dissi a Riina che dovevamo andarli ad ammazzare subito, quei ragazzi. Quasi mi rimproverò: Tanino, ma lascia stare, tu cosa devi dimostrare ancora dopo tutto quello che hai fatto?”. Riina e Grado mandarono i loro uomini a punire quei ragazzi di via Roccella che volevano fare una banda fuori dalle regole di Cosa nostra. E per trent’anni nessuno ha mai saputo perché fossero stati uccisi. “I corpi degli strangolati – svela oggi Grado – sono sotterrati lungo la strada che dalla chiesa di San Ciro arriva a Villabate”.

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