Gli elenchi della verità
Carlo Lucarelli
Lo diceva Nico Orengo, quando scriveva i suoi romanzi in cui comparivano interminabili elenchi di barche o di pesci e oggetti di un determinato luogo: bisogna nominarle le cose, se no si dimenticano e poi spariscono. Ecco, capita, a volte, che a fare gli elenchi delle cose che corriamo il rischio di dimenticare si scoprano elementi in comune, metodi, disegni, addirittura.
È quello che succede leggendo «I pezzi mancanti», il libro di Salvo Palazzolo che mette insieme tutte quelle cose – documenti, armi del delitto, indizi, prove – che, guarda un po’, spariscono dalle scene dei delitti e dei misteri di Mafia. Dall’agenda rossa di Paolo Borsellino alla pietra che ha ucciso Peppino Impastato, passando per l’archivio di Totò Riina.
Non è tanto per fare pubblicità ad un bel libro, quanto per fare una riflessione allarmata. La sparizione di elementi utili è una costante sia nei casi di mafia che negli altri cosiddetti misteri italiani. Dalla strage di Piazza Fontana alla morte di Enrico Mattei, passando per Piazza delle Loggia. Ed è una costante che spesso rende impossibile l’accertamento della verità.
L’allarme che genera questa riflessione è che mentre in una normale dialettica tra “guardie e ladri” tipica di un romanzo giallo a far sparire le prove sono i ladri, o meglio gli assassini, qui –per possibilità di accesso e capacità di depistaggio- non possono che essere le guardie. Ecco che gli elenchi come questo non solo ci fanno ricordare le cose, con un lodevole effetto sulla memoria, ma ci fanno anche pensare. Perché accade questo? Chi può avere interesse, oltre al diretto colpevole, a nascondere le prove? E se colpevoli e investigatori hanno a volte gli stessi interessi, noi come faremo ad arrivare alla verità?
Da L’Unità del 7 maggio 2010
Gli oggetti smarriti dei misteri siciliani
Dalle carte di Dalla Chiesa all´agenda di Borsellino dietro i grandi delitti il giallo di 24 prove scomparse
Un viaggio giornalistico fra i segreti dello Stato, fatti di “pulizie” e depistaggi
Attilio Bolzoni
Chiamiamolo il catalogo, l´inventario delle prove scomparse di Palermo. E frugando fra i reperti (che non si trovano più), torniamo dentro i misteri siciliani degli ultimi trent´anni. La mafia si può descrivere anche con quello che è stato sottratto o cancellato, manomesso o fatto sparire. A volte dopo un delitto, a volte anche prima.
Sono pochi gli omicidi eccellenti di Palermo dove, “sulla scena del crimine”, qualcuno non si sia appropriato di qualcosa per nasconderla per sempre. Qualcuno che non voleva far ritrovare un diario, un’agenda, una cassaforte. O anche un sasso, una pietra sporca di sangue come quella che nella notte fra l´8 e 9 il maggio 1978 uccise Giuseppe Impastato, ragazzo sognatore che se la prendeva con i boss e cercarono di farlo diventare un terrorista suicida. La pietra sporca di sangue, l’arma del delitto “rinvenuta” dal necroforo comunale di Cinisi Giuseppe Briguglio in un casolare a pochi metri dai binari dove ammazzarono Giuseppe Impastato, non è mai stata ricevuta dall´ufficio corpi di reato del Tribunale di Palermo. Consegnata ai carabinieri e poi sparita.
L´inchiesta giornalistica di Salvo Palazzolo è stata raccolta in un libro – ‘I pezzi mancanti´ (Editori Laterza, pagg. 297, 16 euro) – che è, avverte il sottotitolo, “un viaggio nei misteri della mafia”. Ricordando ciò che è accaduto intorno ai morti ‘importanti´ di Palermo, potremmo aggiungere che non è solo un viaggio nei misteri di mafia ma anche un viaggio nei misteri di Stato. Il sicario non ruba mai le prove che lascia: uccide e basta. Sono altri, che poi intervengono per ripulire e depistare.
Di pezzi mancanti, l´inchiesta di Palazzolo ne rintraccia 24. E ci spiega che sono sempre serviti a non farci avvicinare troppo alla verità. Dal sasso che ha ucciso Giuseppe Impastato alle carte che il prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa conservava nella sua cassaforte di Villa Pajno a Palermo: sparite anche quelle. I poliziotti, che la notte del 3 settembre del 1982 entrarono nella residenza del generale prefetto, trovarono la cassaforte ma non la chiave per aprirla. Saltò fuori solo sei giorni dopo, quando la cassaforte era ormai vuota. “Se mi accade qualcosa, prendi quel che sai: ho messo tutto nero su bianco”, aveva confidato appena qualche settimana prima della sua morte Carlo Alberto dalla Chiesa alla fedele governante.
E dov´è finita l´agendina “con la copertina colore marrone scuro” dell´esattore mafioso Ignazio Salvo, quella sequestrata dal commissario Ninni Cassarà pochi mesi prima di venire ucciso a colpi di Kalashnikov? Era agli atti del maxi processo. Era: perché oggi non c´è più. Non c´era più già all´inizio del 1993, quando i procuratori di Palermo inutilmente la cercarono. Fra tanti numeri, su quell´agendina c´era anche quello di tale “Giulio”.
Non si trova più la relazione del segretario regionale del Partito comunista Pio La Torre, quella dove il leader politico denunciava – nell´ottobre del 1981, sette mesi prima di morire – le collusioni con esponenti mafiosi di alcuni uomini del suo partito a Villabate. Non si trova più una videocassetta di Mauro Rostagno, quella che il sociologo giornalista portava sempre con sé e che – secondo alcuni testimoni – aveva sul sedile posteriore della sua auto anche la notte che lo ammazzarono, il 26 settembre 1988. Non si trova più l´agenda rossa di Paolo Borsellino, quella che il procuratore aveva infilato nella sua borsa il pomeriggio che fu ucciso in via D´Amelio.
Pezzi mancanti. Che non ricompariranno più. O che invece ritorneranno al momento opportuno. Per uno scambio, una trattativa. Il contenuto di alcuni file conservati nella memoria del computer del giudice Falcone (quello trovato nella sua casa palermitana di via Notarbartolo) probabilmente non lo conosceremo mai. Il “tesoro” di Totò Riina – documenti che aveva nella sua cassaforte di via Bernini, covo non perquisito dai carabinieri per 18 giorni e 19 notti – non è detto che, prima o poi, non possa riemergere da qualche segreto archivio. Per un altro baratto, un altro ricatto.
Da Repubblica del 21 gennaio 2010