“Da tempo, purtroppo, assistiamo quasi senza accorgercene alla progressiva dispersione della cultura della giurisdizione ed alla continua erosione dei valori dell’indipendenza ed autonomia della Magistratura; e ciò in conseguenza di una serie di reazioni a catena, che, partendo da una certa insofferenza per il magistero penale e dalla forte tentazione dei partiti di occupare anche l’area riservata al potere giudiziario, rischia di scardinare l’assetto costituzionale della divisione dei poteri e di svuotare di contenuto la giurisdizione”. Non è un brano tratto dall’ultimo documento dell’associazione nazionale magistrati, che alla recente inaugurazione dell’anno giudiziario ha scelto di entrare in polemica con il ministro della Giustizia. Sono parole di Giovanni Falcone, pronunciate a Catania il 12 maggio 1990, ad un convegno organizzato dalla facoltà di Economia e Commercio.
“Chi mi conosce sa perfettamente che condivido le critiche nei confronti di certi arroccamenti corporativi – Giovanni Falcone ha il tono schietto di sempre – Chi mi conosce sa perfettamente che condivido le critiche nei confronti di certi richiami formalistici ad un tecnicismo giuridico incurante delle esigenze della società, di certi collateralismi tra taluni Magistrati e determinati gruppi del potere politico. Tuttavia, tali censurabili atteggiamenti culturali non rappresentano di certo una buona ragione per tentare, profittando della crescente sfiducia dei cittadini nei riguardi della Giustizia, per portare avanti un progetto di delegittimazione della magistratura e di progressivo affievolimento delle garanzie di legalità complessive del sistema, dettate non certamente a beneficio della corporazione dei giudici ma nell’interesse di tutta la collettività. Il meccanismo di attacchi e di sospetti – precisa Falcone – si è innescato anche a soprattutto nei confronti dei c.d. giudici antimafia”.
Il testo di questa relazione, dal titolo “Ruolo della magistratura nella lotta alla mafia”, è stato recuperato da Giovanni Paparcuri, uno dei collaboratori di Falcone al palazzo di giustizia di Palermo. Paparcuri è andato in pensione il 31 dicembre scorso: sistemando il suo ufficio ha ritrovato quel prezioso documento, che adesso tutti possono leggere.
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Manca solo un foglio (pagina 18), ma il pensiero di Giovanni Falcone è comunque chiarissimo: “Come non ricordare che è stata bollata come “supplenza” da parte della Magistratura un’attività antimafia che, in quanto diretta all’accertamento di reati, era solo legittima ma anche doverosa? E come non ricordare che alcuni hanno avuto il coraggio di accostare un’attività repressiva svolta nel pieno rispetto delle leggi a quella del prefetto Mori nel periodo fascista?”
“Tante altre critiche sono piovute addosso ai magistrati che si occupavano di inchieste di mafia – dice Giovanni Falcone – Basterebbe ricordare le disinvolte generalizzazioni su pretese scorrettezze nella gestione dei c.d. “pentiti”; quella sui c.d. professionisti dell’antimafia; quelle sulle creazioni dei maxi-processi, come se fossero una invenzione dei magistrati piuttosto che la conseguenza, se si vuole perversa, della normativa sulla connessione dei procedimenti e di una realtà criminosa di dimensioni inusitate; quelle sull’uso delle scorte, che hanno indotto taluni illustri opinionisti anziché a stigmatizzare gli eccessi nell’assegnazione della protezione a chi non correva rischi reali, a guardare con insofferenza tutta la categoria dei magistrati e, specialmente, quelli maggiormente esposti a rischio”.
La conclusione di Giovanni Falcone, che sembra scritta oggi: “Di fatto questo clima tangibile di ostilità ha contribuito, mi auguro inconsapevolmente, a delegittimare la Magistratura ed a creare confusione e disorientamento in quella stessa opinione pubblica che con tanto slancio aveva sostenuto l’impegno antimafia”.
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